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’In tono minore’ Una silloge di Evaristo Seghetta Andreoli

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'In tono minore' … o l’intima significanza delle parole.
Una silloge poetica di Evaristo Seghetta Andreoli – Passigli Editori 2020.

Talvolta accade che l’uomo, nel silenzio dell’ombra che l’accompagna penetri nell’antro numinoso di un universo sospeso, che in ‘assenza di una chiassosa visitazione del proprio ego’, il poeta che pur vive in lui, si conceda all’affannosa ricerca di un’intima emozione che lo pervada. È così che nella sua scrittura, solo apparentemente dimessa, questi apra il suo cielo cosparso di stelle al chiarore di una luna infarinata di biacca, come quella di un clown che mostra al contempo, la sua ingenua meraviglia e la sua amara inquietudine, tema portante – a mio parere – di questa silloge poetica di Evaristo Seghetta Andreoli …

“Ho accettato di stare a metà
sulla scala verso l’altopiano delle stelle.
L’altro dimora all’ombra di edere antiche,
sotto i muri del romitorio.
Varie le reazioni alla speranza:
di certo non rispondono ai dettami del cuore.
Ci lega tutti questa sola strada
che sale e scende in armonia col prato,
nell’attesa di conoscere domani
il colore del nostro fiore”.

Ma non v’è meta nel poeta che s’apre alla speranza del migliore dei mondi possibili, di quel che nella cercata solitudine dell’uomo non appaia possibile, né che la sua rimostranza di clown sia presa in considerazione da alcuno, allorché, finito lo spettacolo il pubblico va via dimentico di sé. Quel che resta è dell’uomo maturo nel suo germinare alla vita, che, all’occorrenza, riscopre se stesso nella natura ch’è propria delle stagioni: così alla nascita, nei colori in primavera e nell’oro assolato dell’estate, ora per ubriacarsi di necessaria linfa, ora di fiori e verzura inebrianti, ora di nuovo polline; così come del vento e delle nuvole quando s’avvicina l’inverno della fine …

Così che “l’uno all’altro ignoti, condividiamo la stessa solitudine.” (…) Con poco o nulla da dire, scegliamo il silenzio. / Ma, se tentiamo una frase, / l’incipit parla all’unisono. E ne ridiamo”.

Allora, come sul pentagramma d’uno spartito musicale, la cifra scrittoria dell’uomo non può che essere ‘in tono minore’, direi interstiziale, di colui che cerca nell’intervallo delle note l’assoluto del suo canto lirico, ma ch’è anche una forma di rispetto necessaria al poeta che, annichilito, s’affranca al cospetto dell’immensa armonia che lo sovrasta ...

“Sono pensieri che solcano il viso, / rughe profonde, vere, come un sorriso. / Sono crepe, sui calanchi delle stelle”.

Come fu per “Vaghe stelle dell’Orsa…” e per “Che fai tu luna in ciel? dimmi che fai” di leopardiana memoria, qui non si tratta di rimembranze, o almeno non solo. Le diverse parti che compongono questa silloge poetica s’avvalgono ora di recitativo, ora d’invocazione, nel ‘modo’ che ognuno di noi, nell’intima significanza delle parole, esprime la propria silenziosa preghiera …

“La luna già riappare / nella sua curva lama. / Cade un altro giorno vano”.

Ed è nell’economia insita nel proprio respiro, nell’intrapresa costruzione di sé, come nella vaga sembianza dell’eterno, che il silenzio si fa dialogo eloquente dell’uomo, del suo inseparabile vissuto. È nell’elaborazione dei propri costrutti, nei lasciti di un’eredità consumata, così come degli abbandoni subiti, che ripone la propria ineguagliabile sofferenza, come per una assenza ingiustificata che ha lasciato l’ombra di sé in una nuvola che passa e s’allontana. Perché? – si chiede l’uomo – senza ricevere risposta … perché?

“Qualche volta le stelle cadono.
Per il resto, resistono lassù,
appese alla parete dell’Apeiron,
pertugi di fuoco nell’involucro universale.
Ce ne accorgiamo
quando sopra il mare tracciano la scia.
Il tuffo nell’infinito è ciò che vorremmo imitare.
Sappiamo bene che in quel mare,
sospeso sopra gli sguardi,
nel suo profondo,
c’è tutto ciò che cerchiamo”.

Perché? – si domanda il poeta inseguendo i fantasmi nelle nuvole che all’improvviso sovrastano il suo cielo. Che forse domani …? Ben sa che ci sarà un domani leggendo nei grafici disegnati dei cirri una scrittura artata che forse lo riguarda, quasi dovesse egli riempire gli spazi ‘bianchi’ dell’universo cielo, giammai vuoti d’altre costellazioni, d’una moltitudine di pianeti lontanissimi …

“Noi, che proveniamo dalle nuvole. / Siamo pieni di cose, di case. / Di niente. / Immersi nel tangibile, / abbiamo smarrito ogni meraviglia. / La metamorfosi della purezza / nella concretezza.”

Ben sa che solo alla poesia è dato scandagliare nel profondo dell’abisso così come dell’immenso cielo, che tutti noi, uomini e poeti … “Abbiamo bisogno di una fine che sia fine, / conclusa in se stessa …

/ Nulla che vada oltre. / Intanto, procediamo su questo otto, / in orizzontale: una linea continua, / circolare, che non ammette soluzione. / Si torna ogni volta al punto iniziale / per un altro giro di giostra: / all’infinito”.

Mentre l’uomo pur spera in un tempo fuori dal tempo in cui …

“Eppure, torneremo liberi, / lievi, tra le braccia sfilacciate delle nuvole, / sospesi ai cirri… E, se cadremo, / sarà soltanto pioggia”.

Una pioggia benefica, salutare, di cui l’uomo sente il bisogno, che lavi via ogni presunzione d’eternità, ogni esuberanza di vanità, e ubriacarsi infine di ciò che nel poeta talvolta, in ‘presenza di una chiassosa rivisitazione del proprio ego’, sa d’essere sublime …

“Questo momento che sembra eterno
ci riporta all’archetipo, all’inizio del Tutto,
al primo alternarsi della luce tra notte e giorno.
Noi rivediamo le spiagge dei mari antichi
da cui venimmo, a cui faremo ritorno, un giorno,
dopo la nostra breve avventura”.

No, non v’è rimpianto né commiserazione nella vaga sembianza del tempo edenico perduto cui il poeta affida i suoi costrutti, o che affronti nel voler superare la barriera che lo separa dal conoscere il proprio destino umano. È quanto rivelato in “Argonauti” …
“Riuscirò a setacciare i ricordi, che filtrano lenti
attraverso il vaglio della memoria.
Ricorderò i luoghi in cui non sono mai stato.
Con rammarico ricorderò di non aver trovato
la via che conduce al vello d’oro, alla ricerca,
alla consapevolezza che la luna di luglio
assai poco ci degna, ormai, della sua attenzione.
Ricorderò nomi e cognomi per tacerli,
preservando la loro debole immunità,
il desiderio di penombra.
Affonda in noi il bisogno di superare ogni barriera,
di sapere come finirà l’assurda storia
degli Argonauti della nostra era”.

Malgrado le parole dell’uomo rivendichino un’autonomia che non gli è data, spetta ancora al poeta l’insistere prepotente sulla stessa nota …

“C’è sempre vita nei versi, tessere sparse / nel mosaico della passione, / occhi vitrei che, dai porti più remoti, / fissano la deriva della coscienza. (…) E la pioggia che scroscia improvvisa, / che si fa insistente, insolente, /trascina la mia sconfitta nel fango. / (…) / Del resto so che alla pace dell’armonia / preferisco sempre la bizzarria del caos. / (…) / Ora temo che dal cielo precipitino giù / le stelle mattutine”.

Ed ecco che al tornar delle stelle nel verso, si riaccende la speranza di un qualcosa che pure è, che sa di apocrifo e autentico allo stesso ‘modo’, di suggerito all’anima dell’uomo come all’orecchio del poeta: “Univoca direzione per noi: / tutto concorre a varcare / la porta dell’asincronia... / (…) Ci sarà, anche quando la chiglia incagliata / mi ricorderà che tutto diviene / e fermarsi è un’illusione!”

Sì – esclamano all’unisono – o forse cantano l’uomo e il poeta, nel dualismo di entrambi c’è la consapevolezza di essere, ‘ergo sum’, certi che le parole non sgorgano dal nulla …

“Scendono giù le parole,
lungo il pendio dell’acqua piovana,
mentre la luna piena di questa notte straniata
danza in un valzer di nuvole chiare.
Veloci, beffarde, le parole fuggono via.
Si fermano, forse, nelle pozze, al bordo
dei campi di fieno.
Si prendono gioco di me (di noi)”.

No – s’apprestano nel dire – o forse sì, perché le parole suggeriscono loro che l’esperienza fa della vita un unico canto, il ‘modo’ d’essere se stessi …

“Ora sappiamo
che un altro giorno è compiuto.
Ci raccogliamo in noi stessi,
dentro le stanze delle nostre rinunce.
Nemmeno tentiamo più di indagare
la direzione dei voli, il sonno dei rondoni,
né dove vanno le nostre illusioni
a morire”.

“E quindi uscimmo a riveder le stelle” è detto nel verso 139 dell’“Inferno” dantesco che, proprio grazie alla dolcezza della poesia, riesce a non smarrirsi nei meandri bui dell’esistenza artata. Così, come nella ritrovata essenza dei suoi costrutti, il nostro poeta, Evaristo Seghetta Andreoli, s’avvale del “verso poetico” per stabilire il prosieguo del suo navigare, limpido, nel mare calmo delle rimembranze; nel suo poetare si respira l’afflato di chi – com’egli dice – ‘in tono minore’, va raccogliendo il senso di ciò che siamo.



L’autore:
Evaristo Seghetta Andreoli di Montegabbione (TR) da sempre vicino, anche per formazione classica e giuridica, al mondo letterario e artistico, ha pubblicato la sua prima raccolta nel 2013 nonostante componga versi sin da giovanissimo. Egli fa parte dell’Associazione Culturale Pianeta Poesia di Firenze, dell’Associazione Tagete di Arezzo e dell’Officina delle Scritture e dei Linguaggi di Perugia. Collabora con le riviste letterarie Testimonianze, Euterpe e L’area di Broca. Ospite di varie rassegne letterarie tra le quali “Modena Poesia Festival 2019”. Vanno qui citate alcune sue pubblicazioni che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, tra le quali: “I semi del poeta” – Premio Aronte – Carrara 2017 – Polistampa Editore 2013; “Inquietudine da imperfezione” – Premio Internazionale “Mario Luzi” (2016/2017) Roma - Passigli Editore 2015; “Paradigma di esse” - Premio “La Pergola Arte Firenze - Lilly Brogi” (2018); Premio Equi-Libri Cava De’Tirreni (2019) - Passigli Editore, Bagno a Ripoli, 2017.

Sitografia:
http://www.italian-poetry.org/evaristo-seghetta/
Mail: evaristo.seghetta@libero.it

Note.
Tutti i corsivi all’interno dei paragrafi appartengono al poeta Evaristo Seghetta Andreoli.

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